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Storia del cinema italiano durante il fascismo

Affermò Mussolini: “il cinema è l’arte più forte”. Rispose Lenin: “il cinema è l’arte più importante”.

Un’arte emergente e confacente

Il cinema fu protagonista di quel bizzarro avvenimento storico che vide il suo fiorire proprio nel periodo in cui, in mezza Europa, regimi totalizzanti e totalitari si stavano affermando e che quindi con ovvia lungimiranza, compresero come tale arte potesse divenire veicolo di comunicazione per eccellenza. Nel periodo del ventennio fascista, ovvero dal 1922 al 1943, nasceranno tre delle più importanti istituzioni italiane: il Centro Sperimentale di Cinematografia (1935), l’Istituto LUCE (1924) e il Festival di Venezia (1932). Dal Centro Sperimentale ove si educava all’esercizio dell’arte, all’Istituto Luce, vera e propria industria cinematografica che, insieme agli stabilimenti di Cinecittà, attivi dal 1937, si occupava della produzione, fino al Festival di Venezia, vetrina internazionale per diffondere le opere, il regime fascista era in grado di controllare l’intera filiera cinematografica, asservendola ai propri fini politici e propagandistici. I messaggi dovevano risultare chiari e inequivocabili: la linea autarchica presa dai vertici politici se da una parte contribuì al fiorire del cinema, dall’altra ne vietò il confronto con la produzione hollywoodiana i cui film erano banditi sul territorio italiano. La produzione italiana tuttavia passò dalle 79 pellicole prodotte nel 1939 alle 119 del 1942 nonostante gli effetti della guerra in atto già si facessero sentire pesantemente sulla popolazione. Uno solo era l’obbligo: non rappresentare la realtà poiché quello era territorio unicamente della politica e non dell’arte.

I percorsi consentiti

Se inizialmente il regime, fino alla fine degli anni ’20 si era mostrato relativamente tollerante, con l’intensificarsi dell’impegno internazionale e delle alleanze prodottesi, il cinema si vide inizialmente relegato ad un ruolo documentaristico e di comunicazione (infatti è enorme il patrimonio oggi presente negli archivi dell’Istituto Luce sull’Italia di quel periodo), per poi restare confinato in un ambito ben definito diventando poi, negli ultimi anni, mero esercizio di magniloquente quanto vuota propaganda inneggiante i fasti dell’antico impero romano che troveranno in “Scipione l’Africano” di Gallone la sua più famosa pellicola. Accanto alla celebrazione, veniva sopportata ma solo in funzione antiamericana, una sorta di commedia svagata, piccolo borghese, ammiccante un mondo di piccoli sogni che in film come “Gli uomini che mascalzoni” di Camerini, inaugura il cosiddetto filone dei “telefoni bianchi”, patinato antesignano della soap-opera. Sarà solo nel 1940 con “Piccolo mondo antico” di Mario soldati che un certo spessore artistico e letterario trova la forza di scavare piccoli sentieri di indipendenza artistica, che esploderà poi con la caduta del regime e con la fine della guerra nello splendido neorealismo, riscattando in ciò un’arte ed un ingegno rimasti imbavagliati e lontani da quella realtà che invece si dimostrò alimento vitale per produrre autentici capolavori.

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